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Ci sono infiniti modi per raccontare una stessa cosa. Saper scegliere il migliore è ciò che fa di uno scrittore un bravo scrittore. Il lettore non si nutre solo di storie, di accadimenti. Si nutre di parole, di suoni, di combinazioni che a volte lo colpiscono al punto di ricordarle per sempre

sabato 30 agosto 2008

L'eleganza del riccio

Gli uomini vivono in un mondo dove sono le parole e non le azioni ad avere il potere, dove la massima competenza è il controllo del linguaggio. E' una cosa terribile, perché in definitiva siamo soltanto dei primati programmati per mangiare, dormire, riprodurci, conquistare e rendere sicuro il nostro territorio, e quelli più tagliati per queste cose, i più animaleschi tra noi, si fanno sempre fregare dagli altri, cioè da quelli che parlano bene ma che non saprebbero difendere il proprio giardino, portare a casa un coniglio per cena o procreare come si deve. Gli uomini vivono in un mondo in cui sono i deboli a dominare. E' un terribile oltraggio alla nostra natura animale, una specie di perversione, di contraddizione profonda.

C'è sempre la via della semplicità, anche se mi ripugna intraprenderla. Non ho figli, non guardo la televisione e non credo in Dio, tutti sentieri che gli uomini calpestano per rendere la loro vita più semplice. I figli aiutano a rimandare l'angoscioso dovere di affrontare se stessi, compito a cui in seguito provvedono i nipoti. La televisione distrae dalla massacrante necessità di fare progetti a partire dal nulla delle nostre frivole esistenze e, ingannando gli occhi, solleva la mente dalla grande opera del senso. E infine Dio mitiga i nostri timori di mammiferi e l'insopportabile prospettiva che i nostri piaceri un giorno abbiano fine.

Bisogna che qualcosa finisca, bisogna che qualcosa cominci.

Mauriel Barbery, L'eleganza del riccio (trad. Emanuelle Caillat e Cinzia Poli)

Credo sia la prima volta che mi capita di leggere un libro così. Arrivi in fondo e non sai se ti è piaciuto. Ci sono pagine deliziose alternate a pagine inutili. Il bello e il brutto si rincorrono dall'inizio alla fine e quando arrivi in fondo rimani con un senso di disagio difficile da spiegare. Con un po' di discernimento da parte dell'autrice, questo libro avrebbe potuto essere un grande capolavoro.

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venerdì 22 agosto 2008

La sedia vuota

"Signorina Sachs, ha discusso con il suo avvocato di questo accordo?"
"Sì, vostro onore."
"E lui l'ha informata che ha il diritto di rifiutare l'accordo e di andare in giudizio?"
"Sì."
"E si rende conto che accettando questo accordo si dichiara colpevole di omicidio?"
"Sì."
"Ha preso questa decisione di sua spontanea volontà?"
Amelia pensò a suo padre, a Nick. E a Lincoln Rhyme. "Sì, vostro onore."
"Molto bene. Come si dichiara riguardo l'accusa di omicidio involontario che le viene rivolta?"
"Colpevole, vostro onore."
"Alla luce delle indicazioni dell'accusa, l'accordo viene accettato e quindi la condanno..."
Le pasanti porte rivestite di cuoio rosso che davano sul corridoio si spalancarono di colpo e Lincoln Rhyme entrò in aula accompagnato dall'acuto ronziò della sedia a rotelle.

Jeffery Deaver, La sedia vuota (trad. Maura Parolini e Matteo Curtoni)

Ma guarda un po', un bel colpo di scena. Devo smettere di leggere Jeffery Deaver, ormai è ufficiale. Quando riesci ad anticipare le mosse di uno scrittore di thriller lo devi mollare, perché un thriller che non riesce a sorprenderti, a farti stare in ansia, a tenerti inchiodato alle pagine è un libro di una noia mortale.
Sia chiaro, Deaver è un maestro, probabilmente il migliore del genere (e infatti vende milioni di copie ogni volta). E costruisce le storie in modo che sia impossibile per il lettore capire chi è il cattivo vero, dove è nascosta la vittima, quali sono i passi dell'indagine. E' impossibile perché le deduzioni tipiche di Lincoln Rhyme non sono roba da comuni mortali (l'autore riesce a costruire le trame solo perché nella sua testa può permettersi di partire dalla fine).

Il problema è che lo schema è sempre lo stesso, e quando lo capisci tutto crolla.
C'è la fase iniziale, in cui il braccio di Rhyme (ossia Amelia Sachs) setaccia la scena del crimine e raccoglie le prove. Prove che, ovviamente, non significano nulla: un granello di sabbia, un residuo di olio su un filo di cotone blu, un filo d'erba comune. Roba che poi ha fatto la fortuna di CSI.
C'è poi la fase delle deduzioni che mettono Rhyme sulle tracce del cattivo. Il criminologo dà istruzioni a Sachs circa la pista da seguire.
Cambio di scena, siamo dalla parte dell'assassino e scopriamo che ha lasciato tracce finte per attirare la polizia in una trappola.
Il meccanismo di cambio di punto di vista serve a mettere in ansia il lettore, che il capitolo prima ha letto le intenzioni di Rhyme, e che quindi sa che Sachs sta andando incontro alla trappola.
Ci spostiamo di nuovo, il punto di vista è quello di Sachs che, un minuto prima di rimanerci secca, ci sorprende cambiando strategia e scampando il pericolo. Dopo scopriamo che Rhyme (dietro le quinte) aveva riflettuto meglio, aveva chiamato Sachs al cellulare, e le aveva detto che era una trappola.
I colpi di scena vanno avanti con questo alternarsi di deduzioni e trappole, aumentando di intensità fino a un finale scoppiettante.
Se il lettore capisce lo schema di fondo non si sorprende più. Sa esattamente quando sta per succedere ciò che dovrebbe fargli fare il salto sulla sedia. Certo, non ci arriva per aver fatto le stesse deduzioni di Rhyme (le scoprirà grazie alle spiegazioni che seguono, magari proverà anche ammirazione per tanta inventiva).
Nessuna emozione, nessuna ansia per i protagonisti, nessuna paura dell'assassino, nessuna voglia di divorare quelle pagine per scoprire cosa viene dopo.

P.S.
"La sedia vuota" è un titolo che non c'entra quasi nulla con la storia e personalmente lo trovo pure bruttino.

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